La soluzione svizzera al caro carburanti è il «fotovoltaico». Intervista all’economista Roman Rudel

Sara Bracchetti

30 Marzo 2022 - 11:12

La Svizzera è uno dei Paesi più virtuosi a livello globale, in tema energetico è capace di dettare l’esempio nel processo di «decarbonizzazione»?

La soluzione svizzera al caro carburanti è il «fotovoltaico». Intervista all’economista Roman Rudel

Da sempre considerata all’avanguardia nelle scelte ambientali, la Svizzera rappresenta per molti un faro nell’utilizzo delle fonti energetiche alternative, anche se nella realtà non è proprio così.

Per il 75% del suo fabbisogno energetico, la Confederazione dipende ancora dall’energia di origine fossile. Qualche numero può aiutare a comprendere meglio dove penda il piatto della bilancia.

Primi i trasporti, 37,8%. Poi il riscaldamento delle case, 27%. In questa fotografia del consumo energetico in Svizzera, sbaglia chi crede che siano le industrie a farla da padrone: il loro fabbisogno effettivo non è che il 18% del totale annuo, mentre i sevizi il 16%.

Tra i più virtuosi al mondo

Eppure la Svizzera è uno dei Paesi più virtuosi a livello globale, al secondo posto della classifica stilata dal World Economic Forum: capace dunque di dettare l’esempio nel processo di cosiddetta «decarbonizzazione», diventato quanto mai di attualità in queste settimane in cui i prezzi del petrolio e del gas ricordano, con modi convincenti come mai prima d’ora, che non c’è tempo da perdere.

Nel frattempo, si paga il prezzo di una transizione che procede troppo lenta, anche in Svizzera e in Ticino, dove però il numero degli impianti fotovoltaici cresce in maniera esponenziale. Sono loro il futuro della Confederazione, spiega Romani Rudel, direttore dell’Istituto sostenibilità applicata all’ambiente costruito (Isaac) della Supsi, segnalando come sia imminente un’accelerazione di un processo ormai e per fortuna irreversibile. «Negli ultimi anni, tutti i grandi investitori si sono allontanati dai combustibili fossili. Sono loro a indicare la strada della decarbonizzazione e lo fanno con convinzione, chiedendolo ai loro shareholder e stakeholder. È un dovere, se vogliamo salvaguardare il nostro benessere. Ed è una priorità indiscutibile: il tempo stringe».

Direttore, a che punto siamo del percorso?
«Abbiamo perso tantissimo tempo. Già negli anni Ottanta si parlava di sviluppo sostenibile, indicandolo come unica via. La tecnologia era disponibile già allora, ma per tanti anni non se n’è fatto nulla».
Per quale motivo?
«Perché sembrava tutto così lontano. Perciò si sono fatte solo chiacchiere. Le discussioni degli anni Ottanta sul clima erano le stesse che ascoltiamo oggi».
Poi che cosa è cambiato?
«L’accordo sul clima di Parigi nel 2015 ha unito il mondo. Le nazioni si sono rese conto che era venuto il momento di intervenire. Nel frattempo c’era stato anche uno sviluppo tecnologico molto forte sulle rinnovabili, diventate estremamente convenienti. Fotovoltaico ed eolico sono le fonti meno costose, oggi».
In questi sette anni che cosa è stato fatto?
«Qualcosa è successo. L’intensità energetica è diminuita in rapporto al Pil, in diversi Paesi e in Svizzera fortemente. Attenzione però: alcune industrie, come l’acciaio, hanno delocalizzato. Bisogna tenerlo presente nel calcolo».
Che cosa ha inciso di più?
«C’è stato un importante efficientamento delle case, che si nota anche nelle statistiche. I trasporti invece non hanno diminuito i consumi, anzi c’è stato un rebound. Le macchine sono diventate più efficienti, la gente ha comprato vetture sempre più potenti, ha cominciato a fare più chilometri».
Eppure l’auto elettrica piace molto in Svizzera. Il mercato è in espansione. Non basta?
«È così soltanto da un paio d’anni a questa parte. Certo ormai è chiaro all’industria automobilistica che il motore a scoppio è finito».
Per i consumi nelle case che cosa è stato fatto?
«Con l’aiuto della Confederazione, i sussidi, i programmi per l’efficientamento energetico, anche a livello cantonale, si è fatto molto. Il problema è che questo processo non è sufficientemente veloce. Per i privati è complicato: devono trovare gli architetti giusti, gli operai giusti, la tecnologia giusta, i sussidi. Le banche si stanno muovendo, ma non ci sono ancora veri e propri business model. Sicuramente si sta premendo sull’acceleratore. È il fotovoltaico la fonte rinnovabile per eccellenza della Svizzera, accanto all’idroelettrico, in questo processo di elettrificazione che riguarda tutto: il riscaldamento delle case, la mobilità, i processi industriali».
Tempi?
«È un percorso per il quale si calcolano altri vent’anni. In questo senso, la mobilità sta spingendo anche altri settori».
Vuol dire che si parte dalla macchina e si arriva alla casa?
«Esatto. Chi compra la macchina elettrica poi vuole il fotovoltaico, desidera essere più efficiente e cambia anche il riscaldamento, passa alla pompa di calore. I veicoli elettrici sono un acceleratore fenomenale».
Sarà sufficiente?
«C’è un aspetto da sottolineare, purtroppo spesso trascurato. Con l’elettrificazione, abbiamo bisogno di meno energia. Quando passiamo da una macchina a combustione a un’auto elettrica, la quantità di energia di cui abbiamo bisogno è un terzo, se non un quarto rispetto a prima. Chi dice che sarà impossibile ricavare da fonti rinnovabili tutta l’energia che usiamo, sbaglia. Non dobbiamo sostituire tutta l’energia: si diventa più efficienti passando da un vettore energetico all’altro».
C’è anche un’altra contestazione che viene mossa: anche l’elettrico, a suo modo, inquina. È così?
«Tutto dipende da come si utilizza l’energia. Se la fabbrica che produce la batteria elettrica usa il carbone, ovviamente inquina. Ma anche in questo campo si sono fatti progressi. Oggi l’industria automobilistica tedesca produce con fonti rinnovabili. Vale anche per la produzione di pannelli fotovoltaici. Finché non ci sarà una sovrabbondanza di energia rinnovabile, ci toccherà sopportare un minimo di inquinamento, ma dire che si consuma più energia per la produzione di un pannello di quanta se ne andrà poi a produrre col pannello stesso è una leggenda metropolitana».
In Svizzera si stima che il 75% dell’energia consumata sia di origine fossile. Come possiamo abbattere un consumo ancora così forte?
«È un dato importante, ma possiamo ridurlo velocemente. Certo, cambiare è un’impresa titanica, ma lo dobbiamo fare. Ed è anche qualcosa che ci conviene. Se compriamo combustibili fossili, i nostri soldi vanno a finire in altri Paesi. Se invece decarbonizziamo, creiamo un impatto positivo sull’economia locale. Il valore aggiunto che si genera rimane qui. Pensiamo anche solo al risanamento degli edifici, fatto in loco da ditte locali e operai del posto».
Nel frattempo però ancora dipendiamo dal gasolio. E i prezzi sono lievitati. Che cosa si può fare nell’immediato?
«Si tratta di un evento imprevisto, che non ha niente a che vedere con la transizione energetica. È la guerra, dove ci sono eventi speculativi e diminuzioni di fornitura. La domanda non sparirà dall’oggi al domani, né sparirà mai. La Russia continuerà a vendere il suo gas e il suo petrolio. Sarà però sempre più una svendita».
Giovedì, al vertice di Parigi, l’Agenzia internazionale dell’energia ha parlato di un piano per ridurre di un terzo in quattro mesi la dipendenza dal petrolio russo, due terzi entro la fine dell’anno la dipendenza dal gas. Credibile?
«Non conosco il piano, ma lo vedo molto ottimistico. Con il Covid e le misure drastiche attuate siamo scesi del 10%, ma un terzo in quattro mesi mi sembra tanto».
Comportamenti virtuosi, risanamento degli edifici, passaggio ad altre forme di riscaldamento. Il piano è questo: basterà?
«Sicuramente tutto può dare un contributo, anche ridurre la temperatura in casa o limitare la mobilità. Ma se anche fossimo tutti d’accordo nel cambiare il riscaldamento di casa, non riusciremmo a farlo in un anno. Non ci sarebbe sufficiente disponibilità di aziende in grado di rispondere alla richiesta in tempi così brevi. Voglio credere che si sia un ragionamento dietro, anche perché nessuno può pensare di imporre un certo tipo di comportamento in Paesi democratici. Ci si può riuscire forse in Cina, ma io non vorrei la Cina a guidare la transizione energetica. Ci sono altri strumenti che possono aiutare».
Qualche esempio?
«Per esempio, per favorire il fotovoltaico, la legge svizzera prevede le «comunità di autoconsumo». Si produce localmente e si crea un mercato tra vicini, abbattendo costi di produzione e di consumo. Si tratta di una misura non ancora abbastanza promossa, ma sono convinto che esploderà presto. Siamo prossimi ad assistere all’inizio di una crescita esponenziale. Anche le banche stanno cominciando a capire e a sviluppare ipoteche speciali con tassi d’interesse più bassi. Le persone comprendono che una casa risanata ha più valore. Ci sono una serie di meccanismi di mercato che favoriscono la transizione, assieme alla convenienza».
Convenienza oggi. Ma la legge della domanda e dell’offerta dice che, quando la domanda cresce, anche il prezzo sale. Accadrà prima o poi?
«No, perché si tratterà di una produzione decentrale. Non sarà più un ente a investire, ma le persone, i padroni di casa. Sfruttando bene le risorse si andrà semmai verso una sovrabbondanza».
Quando parla di fotovoltaico dunque ha in mente le case singole, non i campi di pannelli che accumulano potenza su grossa scala?
«Ci sono diverse forme. Attualmente, il potenziale maggiore è nelle facciate delle case, ancora poco sfruttate a tal fine. Quanto agli impianti estesi su ampie superfici, la Svizzera è un po’ meno favorevole rispetto a Paesi che offrono spazi enormi. Ma c’è una forte pressione anche per realizzare impianti in montagna».
Lì perché non scommettere sul vento?
«L’eolico non è il futuro per la Svizzera. Ci sono pochi posti dove le condizioni del vento sono ideali. In montagna, non dobbiamo poi nasconderlo, c’è una forte opposizione da parte delle organizzazioni per la protezione del paesaggio. Il fotovoltaico è più favorito, anche perché può integrarsi con la qualità estetica degli edifici. Esistono pannelli che in questo senso sono molto attraenti e sempre più apprezzati dagli architetti. Anche loro possono aiutare».

Che mi dice invece del trasporto su rotaia: perché non si fa ancora di più?
«La gomma è più flessibile. Oggi la rotaia è conveniente per un segmento di mercato che guarda alla lunga distanza, ma il grosso volume del trasporto merci è sulla breve e media distanza e qui la ferrovia non è competitiva. Nulla vieta di pensare a innovazioni, magari con mezzi pesanti autonomi che viaggiano su rotaia. Io però credo che oggi la concorrenza alla ferrovia sia il mezzo pesante elettrico».
Finora è rimasto piuttosto marginale. Migliorerà?
«L’elettrificazione del trasporto pesante è molto vicina, verrà sviluppata ulteriormente nei prossimi anni. E grazie a essa assisteremo a una ulteriore e forte riduzione del consumo di combustibili fossili».
Ciò che accade in queste settimane può fare da incentivo?
«Assolutamente. I prezzi attuali dei carburanti non fanno che accelerare verso una direzione che nessuno mette in dubbio: quella indicata dalla strategia energetica 2050».
Non sarà anche che gli svizzeri usano troppo l’auto?
«In media, ogni persona fa 15mila chilometri l’anno. È un dato abbastanza costante nel tempo. Ciò che veramente cresce è il trasporto aereo e qui è più difficile intervenire. Da una parte si spinge verso l’elettrificazione dei voli a corto raggio, dall’altra verso l’uso dei carburanti sintetici per la lunga distanza. Anche il trasporto marittimo è un grosso problema, da affrontare con l’elettrificazione e l’uso di idrogeno o altre fonti sintetiche».
Qualche anno fa si parlava tanto di biodiesel. Oggi sembra quasi scomparso. Che fine ha fatto?
«La guerra ci darà qualche indicazione anche su questo. Utilizzare superfici per fare carburante è una follia totale. C’è ancora sul mercato del biofuel derivato da scarti di canna zucchero, ma i quantitativi sono molto marginali. I terreni servono a produrre mangime per gli animali o cereali per nutrire l’umanità, non per bruciare in modo peraltro molto poco efficiente. Diciamo anche questo: tutto ciò che è combustione ha un rendimento molto basso. Si ricava solo il 20-30% di energia utilizzabile, il resto si spreca in calore».

Che ne pensa dell’uso di disincentivi?
«Fanno parte di questo indirizzo. Gli investitori però posso anticiparli. Mi piace ricordare il presidente della Banca centrale inglese quando, nel 2015, parlò alla piazza finanziaria di Londra del «rischio clima». E la piazza reagì. Il Covid ci ha mostrato che non conviene aspettare la catastrofe per intervenire. Bisogna prevenire ed è questo, oggi, il ruolo vero della politica».

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