Edoardo Beretta: «Un franco forte fa bene anche agli svizzeri. Vi spiego perché»

Sara Bracchetti

16 Marzo 2022 - 08:30

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Mentre in Svizzera molti esperti temono le conseguenze legate al rafforzamento del franco, il docente di Economia all’Università della Svizzera Italiana, propone una chiave di lettura differente.

Edoardo Beretta: «Un franco forte fa bene anche agli svizzeri. Vi spiego perché»

Il franco svizzero si rafforza e conserva il suo valore sull’euro. Dopo aver toccato la parità nei giorni scorsi, la valuta della Confederazione cede un po’ della sua forza, lasciando respirare la valuta dell’Unione, attestandosi oggi introno ai 1,03 franchi per un euro. Meglio, anche se il valore di scambio rimane ancora molto alto.
Dal punto di vista svizzero, la notizia del rafforzamento della divisa nazionale potrebbe essere non così cattiva: basta cambiare prospettiva. Lo sostiene Edoardo Beretta, professore titolare della facoltà di Scienze economiche dell’Università della Svizzera Italiana a Lugano. Al netto dei disagi che comporta, l’apprezzamento del franco può essere letto anche come un’opportunità, riflette.

«Il franco forte è una moneta rifugio. Lo è stata storicamente e oggi lo è ancora di più, non solo perché l’economia svizzera in molti ambiti, fra cui quello economico, continua ad avere un ruolo che potremmo definire “terzo”, ma perché è meno vincolata a dinamiche complesse come quelle dell’Eurozona, che dipendono da 19 Paesi. La Svizzera invece è una nazione solida e con un Pil fra i più alti a livello globale: è l’economia in cui trovare riparo. È una situazione che perdura da tempo: in un’epoca di scarsi rendimenti, in cui i titoli finanziari si legano a bassi tassi di interesse, si va a cercare compensazione altrove. Parlo di divise, dunque di franco svizzero, ma anche di criptovalute».

In questo caso, però, c’è qualcosa di più: una guerra.
«Certamente, ma quello legato al franco svizzero non è un evento che mi meraviglia. A micro-cicli, il franco tende ad avere importanti fasi di apprezzamento. Credo che anche in questa circostanza particolare si possa applicare la medesima riflessione generale. Il conflitto ha nuovamente indotto un effetto, ma non è niente di nuovo».

Dunque possiamo fare ipotesi su quello che attende l’economia elvetica?
«È molto difficile fare previsioni. Dipende anzitutto dalla politica valutaria: la Banca Nazionale Svizzera potrebbe decidere di intervenire per correggere le dinamiche di cambio. Dipende, però, anche dall’evolversi degli eventi: nessuno sa se questa situazione di grave pericolo abbia raggiunto il suo apice. Posso dire che un deprezzamento sostanziale del franco non è all’orizzonte, a meno che non vi siano interventi monetari o sviluppi tali da renderlo plausibile. Casomai, assisteremo a degli assestamenti».

Quanto pagheranno gli svizzeri in termini di competitività?
«Io penso che il cambio forte faccia parte delle regole del gioco di una nazione ad alto livello di sviluppo. Non si può essere la nazione che siamo, con il Pil pro capite e il reddito medio che abbiamo, e pretendere di avere un tasso di cambio deprezzato. È qualcosa con cui dobbiamo imparare a far la pace».

E l’export?
«La chiave è una: svincolarsi dalle dinamiche del cambio. Come? Rendendo il nostro prodotto essenziale, strategico. Guardiamo all’Europa: la Merkel è sempre stata una grande sostenitrice dell’euro forte. L’euro debole non serviva, perché la Germania esportava un prodotto essenziale».

La Svizzera sta lavorando abbastanza in questa direzione?
«La Svizzera deve puntare di più a rendere il proprio know how difficilmente sostituibile. Anche perché si tratta di variazioni valutarie contenute, poco incisive: parliamo di qualche centesimo. Il franco non è il rublo o la lira turca: più che di dinamiche, dovremmo parlare di microdinamiche».

Semplifico e sintetizzo: il franco forte è un bene. È ancora d’accordo?
«Sicuramente il franco forte può creare qualche difficoltà. Ma i prezzi sono in rialzo ovunque, non solo qui. Anzi, in Svizzera, dove il tenore e il costo della vita sono già di un certo livello, le dinamiche dei prezzi incidono in misura inferiore. Il rialzo non può superare di troppo un livello già alto».

Eppure la preoccupazione si percepisce. Chi dovrebbe gioire, secondo lei?
«L’import svizzero è ovviamente un settore avvantaggiato. Il settore del commercio estero, import-export, è avvantaggiato per metà. Le materie prime hanno subito i rincari internazionali che conosciamo, ma le dinamiche di cambio oggi rendono l’acquisto più vantaggioso. Comprare le materie prime adesso alla Svizzera potrebbe costare un po’ di meno».

I consumatori svizzeri se ne accorgeranno?
«Che poi il vantaggio sia annullato dai prezzi che crescono è un’altra questione. Non è legata strettamente al conflitto in Ucraina ma alla pandemia. Dopo un evento nefasto, si assiste a un rialzo dei prezzi. Le previsioni del 2020, che davano prezzi stabili o in decrescita, erano grossolanamente sbagliate. L’inflazione post-pandemica è sempre stata prevedibile».

A proposito di inflazione: le economie familiari. Che cosa significa, per loro, il franco forte?
«Uno svantaggio, più che per gli altri. La gente comune paga lo scotto sebbene i prezzi al consumo non siano così dinamici da essere aggiustati nell’arco di qualche settimana. Apprezzamento del tasso di cambio, un rialzo dei prezzi a livello globale: il rischio è che i rincari siano, però, più che proporzionali. Ma, ribadisco, in Svizzera si sentirà probabilmente di meno, rispetto a un’eurozona dove il tenore di vita è più basso e il rialzo sarà percepito in misura maggiore».

Il prezzo della benzina che lievita anche in Svizzera risponde a queste dinamiche o c’è qualcosa di più?
«In questo caso, c’è una tendenza all’allineamento con l’Eurozona che è in atto da anni, per diverse ragioni. In passato eravamo in una posizione di vantaggio che è venuta meno. I prezzi del carburante crescono a livello globale».

Dunque con la benzina la soluzione che proponeva, “svincolarsi dalle dinamiche di cambio”, non funziona. Che si fa?
«L’Europa ha un problema serio di approvvigionamento energetico. L’unico modo è accelerare il passaggio a forme di energia alternative, anche se poi i risultati non avrebbero evidenza immediata. Servirebbero anni. Purtroppo, ci sono una serie di problemi strutturali che negli scorsi anni sono stati poco affrontati».

Sul fronte dei trasporti, la Svizzera però si è mossa meglio di altri verso l’elettrico. L’economia monetaria ha inciso, in qualche modo?
«Il trend è in atto da anni. Ma assistiamo a uno spaesamento. Nel 2019 nessuno avrebbe ipotizzato che disporre di un’auto sarebbe stato così fondamentale come si è scoperto poi in tempo di pandemia. È un tema che è tornato a essere importante, ma reinterpretato in chiave più sostenibile».

Professore, non possiamo fare previsioni, ma ragioniamo almeno per assurdo. La guerra finisce domani: al franco che succede?
«Vi sarebbe forse un rientro nei margini dei mesi scorsi. L’insicurezza verrebbe riassorbita. Avremmo un piccolo deprezzamento. Ma sono dinamiche difficili, non c’è niente di certo».

Scenario opposto: la guerra non finisce in fretta. La Banca Nazionale interverrà? O dovrebbe farlo?
«Dovessi decidere io, in questo momento no. Se le cose dovessero aggravarsi, non so quale strategia la Bns vorrà adottare: se optare per una limitazione del cambio o agire sotto traccia, per contenere i suoi effetti. In questo momento, le banche nazionali preferiscono operare in maniera meno esplicita. La situazione è tremendamente fluida e prendere decisioni non è semplice».

Fonte foto © Università della Svizzera italiana

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