Coronavirus: a Bergamo metà delle aziende a rischio chiusura

Anna Maria Ciardullo

05/04/2020

Le previsioni di Confindustria disegnano un quadro sempre più preoccupante per il tessuto industriale italiano. A Bergamo, il 52% delle imprese rischia la chiusura a causa del coronavirus

Coronavirus: a Bergamo metà delle aziende a rischio chiusura

Nei giorni scorsi, Confindustria ha lanciato l’allarme relativo al crollo della produzione in tutto il nostro Paese, a causa del devastante impatto del coronavirus.

Ora, un nuovo sondaggio condotto dal Centro studi di Viale dell’Astronomia a livello locale, evidenzia lo stato d’allerta sull’imminente rischio di chiusura delle aziende italiane.

Accade a Bergamo. Sono il 52% le imprese del bergamasco che hanno dichiarato di non poter continuare la propria attività, se non riceveranno immediatamente un supporto dal governo o più in generale dalle istituzioni. Senza aiuti pubblici, rischia di sparire un’azienda su due.

Purtroppo, i livelli di produzione nel nostro Paese sono sprofondati a marzo e il primo trimestre 2020 si è chiuso con un -5,4%. Questo, il dato emerso dal monitoraggio del mercato effettuato da Confindustria che, per il momento, non lascia spazio all’ottimismo per il prossimo futuro.

A Bergamo aziende a rischio chiusura: ecco i dettagli

Le principali evidenze della prima edizione dell’Osservatorio mensile di Confindustria Bergamo, fanno chiarezza sull’impatto dell’emergenza COVID-19 sulle imprese del territorio. Queste ultime, rappresentano un valore aggiunto di 32,5 miliardi di euro, pari al 9,5% del PIL lombardo e del 2% di quello nazionale, con una quota di export del 16%.

Sono il 52%, dunque, le aziende a rischio chiusura nel territorio di Bergamo. Per tutte le altre, le previsioni non sono comunque rosee: il 32% stima di poter resistere massimo un anno e solo il 4% ritiene di poter sopravvivere all’emergenza.

Non a caso, l’84% delle aziende vede come unica soluzione la cassa integrazione, da richiedere al massimo entro sei mesi. Il 48% delle imprese bergamasche, che hanno chiesto o chiederanno questo provvedimento, ossia una su due, lo attiverà per circa il 70-100% dei dipendenti. Il restante 16% si divide tra l’incertezza (5%) e l’intenzione di non ricorrervi (11%).

Secondo i dati analizzati, la maggioranza delle aziende pensa di poter tornare al normale livello di operatività entro la fine dell’anno e ai livelli di produttività precedenti all’emergenza entro i prossimi 12 mesi.

Il rischio di chiusura riguarda tutte le aziende italiane

Questi dati non riguardano solo Bergamo, ma fanno parte di un’indagine integrata che comprende anche altre simulazioni che il Centro Studi di Confindustria (CSC) sta effettuando ormai da qualche settimana.

Il crollo della produzione registrato nella prima parte di quest’anno, è stato il più grave degli ultimi undici anni, da quando ci fu lo scoppio della recessione mondiale a causa dei mutui subprime in USA. Allora era sceso dell’11,1%.

Secondo le stime del CSC, il decreto Cura Italia, approvato a marzo dal governo, non sarà sufficiente ad arginare l’impatto devastante della pandemia che si abbatterà, non solo sul PIL dell’Italia, ma anche su deficit e debito pubblico.

ANSA ha riportato la testimonianza di Stefano Scaglia, presidente di Confindustria Bergamo, il quale non ha fatto mistero di quanto il rischio di chiusura delle aziende sia preoccupante, con evidenze molto gravi in certi casi, ma ha anche aggiunto:

“ci sono alcuni aspetti che ci confortano e che ci motivano ulteriormente a proseguire nelle nostre azioni affinché nessun player venga abbandonato. Per garantire ossigeno alle imprese, è urgente che il sistema creditizio sia ridiscusso e che i parametri per valutare i prestiti siano stravolti: burocrazia e valutazioni con il ’bilancino’ devono lasciare il campo a strumenti nuovi e ad approcci solidaristici da parte dello Stato e della BCE”.

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