Ritorno alla Lira: cosa succede se l’Italia lascia l’euro?

Flavia Provenzani

6 Novembre 2017 - 09:23

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Cosa succede con il ritorno alla lira se l’Italia decide di abbandonare l’euro? Analisi di scenari e conseguenze sull’economia.

Ritorno alla Lira: cosa succede se l’Italia lascia l’euro?

Cosa succede con un ritorno alla lira, nell’ipotesi in cui l’Italia uscisse dall’euro?
Esaminiamo considerazioni, i vantaggi e le criticità del ritorno alla lira e le conseguenze dell’abbandono della moneta unica.

L’uscita dall’Euro da parte dell’Italia e di altri paesi appartenenti all’area euro è oramai un tema ricorrente all’interno del dibattito politico ed economico internazionale, tanto da portare molti ad interrogarsi su cosa potrebbe succedere in uno scenario di ritorno alla lira.

Chiunque si interessi al giorno d’oggi di questioni economiche non può fare a meno di imbattersi in alcune domande chiave quali:

  • Conviene all’Italia uscire dall’Euro?
  • Cosa succede se l’Italia ritorna alla lira?

Tra i vantaggi del ritorno alla Lira uscendo dall’euro troviamo il fatto che con la nostra moneta nazionale il nostro paese beneficerebbe di notevoli guadagni di competitività sui mercati esteri, le esportazioni aumenterebbero e il saldo della bilancia commerciale segnerebbe un forte rialzo.

L’uscita dall’euro appare sempre più come un desiderio di molti Paesi dell’Eurozona forte della vera causa del sorgere della crisi dell’Eurozona, ovvero i deficit commerciali registrati dai paesi periferici dell’area.

Perché pensare al ritorno della lira

L’uscita dall’Euro, naturalmente, sarebbe accompagnata da un ritorno alla lira, la nostra vecchia valuta nazionale, il cui valore rispetto all’Euro non sarebbe in un rapporto di parità (1:1), bensì inferiore, ad esempio 1:0,5.

La svalutazione - la perdita di valore della lira o di qualsiasi altra valuta nazionale rispetto all’Euro - permetterebbe, a parità di tipologia e qualità di merci vendute sui mercati internazionali, di incrementare la quota di mercato italiana tramite un aumento della quantità di beni venduti all’estero, migliorando il saldo della bilancia commerciale (in deficit a causa dell’importazione netta di beni energetici).

Sempre considerando la bilancia commerciale italiana, la svalutazione della moneta nazionale rispetto all’Euro avrebbe però effetti negativi dal lato dei beni importati, causando un aumento del valore dei beni acquistati all’estero, contribuendo quindi ad un peggioramento del saldo con l’estero nello scenario di un ritorno alla lira.

Cosa succede se l’Italia esce dall’euro?

Sicuramente, un ritorno dell’Italia alla lira è difficilmente prevedibile, non solo nel senso che a oggi è uno scenario ancora impensabile, ma anche nel senso che non si possono fare previsioni certe. Sarebbe un bene o un male? Tutto dipenderebbe anche dal nuovo panorama economico che si profilerebbe, con una eventuale disgregazione dell’Ue (con tutti i Paesi che ritornano alle loro vecchie monete nazionali) o una sua continuazione (ma differente rispetto a come la conosciamo oggi).

Con un’uscita dell’Italia dall’euro muterebbe il clima economico generale, dall’Europa agli Stati Uniti, mentre avrebbero la meglio le economie emergenti, soprattutto la Cina. Non sarebbe necessariamente un male, se lo si vede da un’ottica esterna (anche l’economia vive di cicli e spodestamenti), ma sicuramente dovremmo cambiare abitudini di vita, usi e consumi.

Scordatevi i prelievi a tempi di record: i bancomat non funzionerebbero e le banche resterebbero chiuse per un po’ di tempo; a questo punto sarà necessario rompere il bussolotto e acquistare i beni di prima necessità con i nostri risparmi reali, in attesa della riapertura delle banche, nelle quali troveremo la sorpresa di vedere svalutato il nostro patrimonio: il ritorno alla lira significherebbe infatti anche svalutazione, variabile in base all’esistenza o meno dell’euro.

Un altro fattore da non sottovalutare sarebbe il riadattamento al consumo: i prezzi dei prodotti esteri sarebbero raddoppiati, mentre anche i prodotti interni avrebbero un forte rincaro. Ricordate il confronto del rapporto tra euro e lira all’inizio del Duemila sui prodotti acquistabili? Beh, ci sarebbe anche ai primi tempi di questo «nuovo mondo», ma stavolta l’occhio dovrebbe cadere sulla lira e non sul rimpianto euro. Utilizziamo il termine «rimpianto» apposta, perché in breve rimpiangeremmo la moneta unica e come vivevamo quando le cose andavano bene: un momento difficile ci sarà, eccome, ma il modo di superarlo anche.

Le banche verrebbero nazionalizzate per far fronte a un debito verso l’estero raddoppiato, mentre le piccole imprese chiuderebbero perché non riuscirebbero a fronteggiare i costi. A gioire sarebbero le imprese esportatrici, poiché venderebbero prodotti a un prezzo dimezzato e verrebbero pagate con valuta estera, certamente molto più forte della nuova lira. E forse sarebbe proprio questo fronte a incrementare una nuova crescita economica per il nostro Paese, che tuttavia dovrebbe abituarsi a non vivere più in un mondo «economicamente» globalizzato, almeno nei primi tempi.
Ciò che mina queste certezze, tuttavia, è l’incombere delle economie emergenti, e la competitività del nostro mercato potrebbe non essere sufficiente.

Quindi, l’uscita dell’Italia dall’euro e il ritorno alla lira sarebbe un bene o un male? Molto difficile fare previsioni certe: sicuramente ci ritroveremmo a vivere in un mondo del tutto diverso da come lo conosciamo oggi. E dovremmo avere la forza di affrontarlo e, soprattutto, andare avanti senza più guardarci indietro.

L’Italia ci guadagna davvero?

Esaminiamo i dati sul commercio estero dell’Italia per definire se il ritorno alla lira sia davvero una scelta a vantaggio dell’Italia.

Italia: saldo partite correnti in rapporto al PIL

Il grafico qui sopra (dati FMI) riporta i dati del saldo delle partite correnti in rapporto al PIL - ovvero la differenza tra esportazioni di beni e servizi in rapporto alla differenza tra redditi in entrata e in uscita dal Paese.
I redditi in uscita sono dati ad esempio dagli interessi che lo Stato italiano paga sui titoli detenuti da residenti esteri: sappiamo, infatti, che la quota di maggioranza dei titoli pubblici nostrani è detenuta proprio da soggetti esteri.

Il ribasso del rapporto a partire dal 2000 fino al 2010, anno in cui il dato tra saldo delle partite correnti e PIL ha raggiunto il -3,5%, ha fatto scattare l’allarme. Ecco, si dice, a scatenare la crisi dell’Euro non sono stati gli «insostenibili» livelli del debito pubblico, bensì il peggioramento dei rapporti con l’estero; un’uscita dall’euro e un ritorno alla Lira consentirebbero allora di riacquistare la competitività perduta nel corso del primo decennio della moneta unica, la quale non ha consentito ai paesi membri di adoperare il meccanismo della svalutazione per riequilibrare i deficit commerciali.

L’inversione di tendenza del dato a partire dal 2010 sarebbe il frutto della crisi la quale, deprimendo la domanda aggregata, avrebbe depresso anche le importazioni, con ciò riequilibrando parzialmente lo squilibrio esterno.

I dati riportati qui sopra (dati Ameco) ci dicono però che l’andamento di esportazioni e importazioni di beni e servizi italiani nel corso dell’ultimo decennio non è stato così drammatico. Ad eccezione del periodo compreso tra gli inizi del 2008 e la fine del 2010, il saldo è stato, in media, grosso modo in pareggio. In più, se si osserva l’orizzonte temporale compreso tra il 2009 e il 2013, si vede come le esportazioni abbiano sperimentato un trend crescente, mentre le importazioni hanno cominciato a diminuire solo a partire dal 2011.

La serie del grafico sopra (dati Ameco), che misura la differenza tra esportazioni e importazioni di beni e servizi, ci fa vedere come, in effetti, un vero e proprio saldo negativo è riscontrabile nel periodo compreso tra il 2008 inoltrato e il 2011, mentre già a partire dal 2010 si registra una tendenza al miglioramento del saldo.

A seguito della crisi, allora, sono sì diminuite le importazioni, ma sono contemporaneamente aumentate in misura maggiore anche le esportazioni; proprio questo aumento è la causa principale del miglioramento del saldo della bilancia commerciale italiana che, secondo le stime, nel 2013 raggiungerà un valore positivo pari a circa 60 miliardi di euro.

Il ritorno alla lira è necessario?

Sembra allora che l’Italia non abbia poi più di tanto bisogno di beneficiare di una maggiore competitività. Un paese che è l’ottavo esportatore mondiale (secondo in Europa solo alla Germania) e che ha una quota sull’export internazionale pari al 3,0%, non sembra da biasimare, almeno per le performance con l’estero.

Un problema forse più importante che il paese si troverebbe ad affrontare in seguito alla svalutazione rispetto all’Euro della moneta nazionale, risiederebbe nel rischio di un aumento del valore dell’energia importata, la quale entra in maniera consistente nel paniere dei beni che misurano l’indice dei prezzi al consumo, ossia il principale deflatore dei salari reali.

Un aumento dell’indice dei prezzi al consumo, dati i salari monetari, condurrebbe ad un’ulteriore diminuzione dei salari reali, già in netta discesa negli ultimi anni, come evidenza il grafico qui sotto (dati Ameco), in cui si mette in evidenza l’andamento decisamente negativo registrato dalle retribuzioni reali a partire dal 2011, con un ritorno ai livelli negativi del 2002:

È questa un’eventualità da considerare con estrema attenzione (non l’unica, ovviamente: si pensi alle possibili perdite in conto capitale che gli istituti di credito potrebbero subire a seguito di una svalutazione del valore dei titoli) , in quanto una situazione distributiva già particolarmente a sfavore delle classi medio-basse non ha di certo bisogno di essere alimentata, anzi: urge al contrario la necessità di una netta inversione di tendenza, e un eventuale ritorno alla Lira non dovrebbe, a parere di chi scrive, contrapporsi ad una simile impellenza, bensì favorirla e sostenerla.

Ritorno alla sovranità decisionale

Di più, la vera conquista per l’Italia di un ritorno alla moneta sovrana sarebbe quello di riacquistare autonomia decisionale in materia di politica fiscale e monetaria. Si potrebbe finalmente rompere quel rapporto (ormai saturo) con l’autorità monetaria europea, in maniera tale da poter abbattere i vincoli alla spesa stabiliti da Maastricht e le barriere economiche e istituzionali imposte dalla BCE nel poter operare come prestatore di ultima istanza.

Più spesa pubblica significa infatti maggiore occupazione, produzione e reddito. Un più elevato livello di occupazione comporterebbe prima o poi, grazie al maggiore potere contrattuale della classe lavoratrice, più elevati salari reali.

Inoltre, senza i paletti che limitano e rinnegano la spesa in deficit dello Stato e con una banca centrale nazionale operante da prestatore di ultima istanza, si potrebbero perseguire contemporaneamente gli obiettivi di piena occupazione e di contemporaneo sostegno ai titoli pubblici nazionali.

Cosa succederebbe allora se ci fosse un ritorno alla Lira? La risposta è: si potrebbero finalmente prendere decisioni in autonomia e nell’interesse collettivo.
Tutto sta nel vedere se c’è davvero qualcuno disposto ad attuarle.

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