Crisi economica in Italia: tra scenari futuri e uscita dall’Euro. Intervista a Pierluigi Montalbano

Simone Micocci

12/10/2015

05/11/2015 - 19:58

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Crisi economica in Italia: inizia la ripresa economica? Qual è il futuro del nostro Paese nell’Eurozona? Il parere di Pierluigi Montalbano, professore dell’Università La Sapienza di Roma.

Crisi economica in Italia: tra scenari futuri e uscita dall’Euro. Intervista a Pierluigi Montalbano

Forexinfo ha intervistato Pierluigi Montalbano, Professore di Politica Economica presso la Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma e membro della Società Italiana degli Economisti (SIE).

È il 7 febbraio del 2007 quando la banca finanziaria californiana, la New Century, lancia un allarme degli utili. E’ il primo segnale della crisi finanziaria che da lì a qualche mese sconvolgerà il mondo. Uno dei momenti più importanti della crisi finanziaria è il crack della banca d’affari Lehman Brothers e la decisione del Governo USA di non salvarla. Da lì in poi la crisi finanziaria si trasforma in una crisi reale e molti Paesi, tra cui l’Italia, finiscono in recessione.

Sono passati circa otto anni dallo scoppio della crisi finanziaria e alcuni istituti di statistica cominciano a intravedere una ripresa per l’economia dell’Italia. A loro avviso presto il PIL del nostro Paese potrebbe tornare a crescere dopo un periodo di recessione.

Con il Professor Montalbano facciamo il punto sulla situazione attuale dell’Italia, focalizzandoci sulle prospettive future e sulle reali possibilità di uscita dall’Eurozona.

1) Buongiorno Professor Montalbano, la ringraziamo per il tempo che ha deciso di dedicarci. Partiamo con la prima domanda: tra il 2007 e il 2014 la disoccupazione in Italia è aumentata del 108%, più del doppio rispetto alla media degli altri Paesi, invece in Germania la disoccupazione è diminuita del 40%. Secondo le statistiche l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di giovani di età compresa tra i 15 e i 24 anni che né lavorano e né studiano. Dal 2007 la produzione italiana è scesa del 23,54%, mentre i consumi sono diminuiti del 13%. In questi anni l’Italia è cresciuta meno della Grecia e secondo il FMI ci vorranno più di vent’anni prima che la disoccupazione scenda ai livelli pre-crisi. Perché gli effetti della crisi sono stati più forti in Italia rispetto ad altri Paesi?

Perché si è sommata a dinamiche pregresse di progressiva perdita di competitività della nostra economia. Anzi, in base ad alcuni parametri di vulnerabilità macroeconomica, l’Italia era messa meglio di altri Paesi europei, con un indebitamento privato delle famiglie meno pronunciato, un sistema bancario meno esposto, una bolla immobiliare meno ampia. Tuttavia, il fardello determinato da un debito pubblico elevatissimo ha ridotto fortemente i margini di manovra della politica economica nazionale, soprattutto nel momento in cui l’innalzamento dei tassi di rifinanziamento (il famoso aumento degli spread) ha minacciato la sostenibilità dei conti pubblici. A ciò si sono poi aggiunti i vincoli imposti dal Patto di Bilancio Europeo con l’introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta Costituzionale. Ma al di là del dibattito circa l’utilità o meno delle misure di austerity adottate dai Paesi europei, è un dato di fatto che la crisi italiana è prioritariamente una crisi di competitività, che nasce ben prima della crisi finanziaria, e che, pertanto, non può essere combattuta esclusivamente con strumenti di breve periodo di natura macro (politiche governative e quantitative easing), ma richiede investimenti di lungo termine capaci di accrescere l’innovazione e la produttività delle imprese a livello microeconomico.

2) Eppure ci sono dei segnali di ripresa: Standard & Poor’s ha affermato che, dopo tre anni e mezzo di recessione, l’economia italiana ha ricominciato a crescere. Purtroppo la ripresa sarà più lenta rispetto altri Paesi a causa della bassa crescita dei salari e dell’alto tasso di disoccupazione. Secondo lei questa ripresa, seppur lenta, è destinata a durare o è solamente un fenomeno di breve periodo?

Dal marzo 2015 la BCE ha avviato il c.d. “Quantitative Easing”, un vasto programma di acquisto di titoli, in gran parte del debito pubblico, al ritmo di 60 miliardi di euro al mese, che durerà almeno fino al settembre 2016 (ma Draghi si è già detto pronto a prolungarne la durata). Il QE, secondo le previsioni, dovrebbe scongiurare la deflazione, aumentare la liquidità ed i consumi e ridurre i rendimenti dei titoli di Stato a lunga scadenza. In questo modo contribuirà a diminuire tutti i tassi d’interesse, compresi quelli dei mutui e dei finanziamenti alle imprese, nonché a favorire il deprezzamento dell’Euro rispetto alle principali valute internazionali. Anche solo in termini di aspettative, ciò determinerà sicuri benefici alle economie dell’Eurozona, calmierando i rendimenti dei titoli di Stato anche dei paesi più indebitati e favorendo il credito alle imprese e le esportazioni extra-UE. Come detto prima, il QE non potrà, tuttavia, modificare i fondamentali economici, né sostituirsi alle riforme strutturali necessarie alla ripresa della competitività di lungo periodo delle imprese.

3) Anche le stime di Confindustria testimoniano la crescita dell’Italia nei prossimi anni: entro il 2016 ci saranno 500.000 posti di lavoro in più e il PIL crescerà dell’1,5%. Secondo lei la ripresa dipende da fattori endogeni (Jobs Act, introduzione degli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato) o da fattori esogeni come il calo del prezzo del petrolio, i tassi d’interesse ai minimi e la svalutazione dell’Euro?

Confindustria stessa dichiara che le proprie stime non tengono conto del Jobs Act, e sono prevalentemente trainate da fattori esogeni, come la riduzione del costo delle materie prime, l’auspicata ripresa della domanda mondiale ed il deprezzamento dell’euro. Le stesse previsioni mettono in guardia circa la presenza di numerosi elementi d’incertezza a livello internazionale (basti pensare alle difficoltà dei paesi emergenti fino ai recenti scandali che coinvolgono l’industria tedesca dell’auto) oltre agli effetti controproducenti sulle aspettative degli operatori (che, va sottolineato, rimangono un elemento chiave per la ripresa) del dibattito sulla politica economica in Europa, unitamente alla carenza di un piano convincente di investimenti pubblici. Merita, inoltre, di essere sottolineato il richiamo che viene fatto, nel caso dell’Italia, al problema della corruzione dilagante. In questo quadro è innegabile che l’auspicata adozione, qui più volte richiamata, di un pacchetto di riforme strutturali (di cui il Jobs Act non è che un tassello) avrebbe un ruolo per ripristinare un clima favorevole alla ripresa di competitività delle nostre imprese con benefici, di medio e lungo periodo, sull’innovazione, l’occupazione e la crescita.

4) Negli ultimi tempi due personaggi politici come Salvini e Grillo hanno indicato la cura per l’economia dell’Italia: l’uscita dall’Eurozona. Secondo lei sarebbe possibile? Quali sarebbero le conseguenze?

Al di là della possibilità tecnica, le conseguente sarebbero particolarmente negative per il nostro Paese. Lo abbiamo già sperimentato. Come sopra richiamato, uno dei fattori che più hanno contribuito all’aggravarsi della crisi nel nostro paese è stato l’ampliamento degli spread nei tassi di finanziamento dei titoli pubblici, che ha seriamente minacciato la sostenibilità dei nostri conti pubblici. Ciò è stato determinato proprio a causa della sfiducia degli operatori circa la tenuta dell’Eurozona ed è stato superato solo quando, a livello europeo, un mix d’interventi, comprese le c.d. “misure non convenzionali” di politica monetaria adottate dalla BCE, non hanno contribuito a modificare le aspettative degli operatori a favore della tenuta del processo europeo. Pertanto, le conseguenze della c.d. “uscita dall’Euro”, pur limitandoci al problema del rifinanziamento della nostra spesa pubblica in disavanzo (e non sarebbe l’unico) sarebbero molto negative.

5) Un’ultima domanda: il politico britannico Nigel Farage, durante un’intervista sul blog di Grillo, ha detto che l’Euro non ha futuro e che entro 10 anni in molti paesi dell’Eurozona sarà indetto un referendum per far decidere al popolo se abbandonare o no la moneta unica. È d’accordo con questa prospettiva? E secondo lei qual è il futuro dell’Euro?

Purtroppo, prima della crisi, si era tutti molto più positivi circa il futuro del progetto europeo che, credo vada ancora sottolineato, è più ampio del pur ambizioso progetto di integrazione monetaria. Basti pensare al tema della c.d. “cittadinanza europea” o alla c.d. “generazione Erasmus”, per citarne solo alcuni degli aspetti più noti di natura non economica. La crisi sta mettendo tutto il progetto europeo alla prova. Tuttavia, i paesi membri hanno storicamente dimostrato che proprio nei momenti di crisi e/o di apparente involuzione della costruzione europea hanno saputo trovare rinnovato slancio verso una maggiore integrazione (basti citare l’Atto Unico Europeo dopo la crisi degli anni Settanta e il “Rapporto Cecchini” sui costi della Non Europa). Sono perciò fiducioso che un processo del genere possa attivarsi anche questa volta, non a caso il mix d’interventi adottati dai paesi membri per fronteggiare la crisi è andato proprio nella direzione di accelerare l’integrazione (anche a patto di vincolare eccessivamente le politiche di bilancio nazionali) più che di favorire la disintegrazione. Tuttavia, le incertezze rimangono e la contrapposizione degli interessi in gioco in un consesso sempre più ampio di Stati membri rende oggi più difficile di ieri soluzioni condivise verso una maggiore integrazione.

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