Reddito minimo garantito? L’Italia deve sperimentarlo. Forexinfo intervista Paola Bozzao

Valentina Pennacchio

03/04/2013

03/04/2013 - 16:29

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Reddito minimo garantito? L’Italia deve sperimentarlo. Forexinfo intervista Paola Bozzao

Forexinfo intervista Paola Bozzao, professoressa di Diritto del lavoro e di Modelli di welfare a confronto presso la Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia, Comunicazione dell’Università La Sapienza di Roma, Dipartimento di Scienze Politiche.

Paola Bozzao è autrice di diversi libri sul tema Lavoro e Diritti, quali: «La tutela previdenziale del lavoro discontinuo. Problemi e prospettive del sistema di protezione sociale» e «La rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro», scritto a quattro mani con il Prof. Edoardo Ghera.

Abbiamo intervistato la Prof.ssa Bozzao, che ringraziamo vivamente per il contributo articolato ed interessante, sulle questioni più calde del momento in termini di welfare e mercato del lavoro. Ecco le sue risposte.

1. In questo periodo si sta parlando molto di reddito di cittadinanza, Agenda 2010 e riforma tedesca Hartz. Crede che si possa “esportare” questo modello anche in Italia, introducendo degli aiuti anche per giovani disoccupati che non riescono ad inserirsi nel mercato del lavoro, una volta completato il proprio ciclo di studi, per consentirgli di iniziare un percorso di maggiore autonomia dalla famiglia o crede che possa rappresentare, come sostiene qualcuno, un disincentivo a lavorare?

Per poter rispondere alla domanda è necessaria una prima puntualizzazione, che riguarda le misure di welfare sulle quale stiamo riflettendo, misure che corrispondono a nozioni che, avendo diverso contenuto semantico, necessitano di non essere utilizzate in modo promiscuo.
Quando si parla, infatti, di reddito di cittadinanza, si indica un’allocazione universale ed incondizionata, rivolta a tutti gli individui in quanto membri di una comunità politica, senza alcuna distinzione e senza alcuna contropartita; la liberazione dalla povertà assurge, così, a diritto umano fondamentale, che prescinde dallo status occupazionale, anche solo potenziale, del suo beneficiario.
A tale forma “pura” di basic income si affiancano altre definizioni, quali il reddito minimo di inserimento e il reddito minimo garantito: si tratta, in questo caso, di misure di protezione del reddito presenti in quasi tutti i Paesi dell’Unione, il cui tratto comune consiste nel riconoscimento di trasferimenti monetari a beneficio dei residenti in situazione di povertà estrema, a condizione che sussista una situazione di bisogno effettivo (e, dunque, del tipo means tested). Caratteristica di tali misure è il loro carattere “universalistico nella selettività”, dal momento che potenziali beneficiari sono tutti coloro che si collocano al di sotto di una determinata soglia di condizione economica; il sostegno economico risulta, poi, spesso accompagnato dalla previsione di ulteriori misure di integrazione sociale (agevolazioni abitative, contributo per il servizio di trasporto pubblico, gratuità dei libri scolastici).

A questo secondo modello fanno riferimento le misure adottate in Germania con la c.d. Hartz IV. Muovendo dal presupposto che prestazioni sociali elevate e protratte nel tempo determinano un effetto disincentivante rispetto alla ricerca o all’accettazione di una nuova occupazione, il legislatore tedesco ha orientato la riforma alla riduzione di tale effetto, attraverso il ridimensionamento degli importi delle prestazioni (specie per i disoccupati) ed una maggiore responsabilizzazione del beneficiario della prestazione nella ricerca attiva di un’occupazione.
Questo modello ben potrebbe essere importato nel nostro Paese (alcune Regioni ad esso si sono già ispirate: penso, in particolare, all’esperienza laziale), modulando con attenzione il tipo di misura attraverso il quale realizzarlo e, necessariamente, rafforzando le misure attive volte al reinserimento dei disoccupati/inoccupati nel mercato del lavoro.

2. Gentile Professoressa può spiegare meglio ai nostri lettori l’esperienza regionale da Lei citata? Qual è il “modello laziale” a cui si riferisce?

Mi riferisco alla legge regionale 20 marzo 2009 n. 4, che ha introdotto nel Lazio l’istituto del reddito minimo garantito. Con tale sperimentazione, durata purtroppo solo un anno, è stata prevista una misura ad universalismo fortemente selettivo, rivolta a specifiche categorie di beneficiari, rinvenibili nei disoccupati, inoccupati o lavoratori precariamente occupati, categorie selezionate sulla base comune del ’lavoro’ o, più precisamente, della sua mancanza/insufficienza e della situazione di fragilità economica che ne deriva (lavoro perso, mai avuto, non economicamente sufficiente).
Tra i requisiti richiesti ai fini dell’accesso al trattamento economico è richiamata, oltre alla residenza nella regione da almeno ventiquattro mesi e il non superamento di una determinata soglia reddituale, l’iscrizione alle liste di collocamento dei centri per l’impiego, con sottoscrizione di un patto di servizio nel quale sono precisate la professionalità, la formazione ricevuta e le competenze del lavoratore. Si tratta, quindi, di una misura più di workfare che di basic income, orientata però al perseguimento non di un lavoro qualsiasi ma - in linea con le più recenti indicazioni provenienti dall’ordinamento europeo - di un lavoro di qualità, la cui valutazione dovrà essere operata in raccordo con le tipiche componenti definite dalle Regioni per la definizione della congruità della proposta lavorativa ai fini della conservazione dello stato di disoccupazione.

3. Secondo lei il problema dell’alta disoccupazione italiana tra i giovani è legato alla flessibilità? Sarebbe opportuna una maggiore “razionalizzazione contrattuale” per far ripartire il mercato del lavoro e porre fine al proliferare di tanti nuovi contratti atipici?

La flessibilità costituisce una delle possibili risposte alla grave crisi finanziaria che sta investendo il nostro Paese. A tale situazione di recessione economica è principalmente riconducibile l’alto livello degli attuali tassi di disoccupazione, specie giovanile. La flessibilità, ritenuta necessaria per favorire i processi di riassetto organizzativo delle imprese, più che generare disoccupazione produce occupazione di scarsa qualità, ed espone il lavoratore ad esperienze occupazionali sempre più caratterizzate da frequenti fasi di interruzione/sospensione dell’attività lavorativa e, dunque, dall’alternanza tra periodi di lavoro e di non lavoro.
Se si muove da questa prospettiva, la flessibilità evoca non solo la necessità di modulare i vincoli alla disciplina nel rapporto di lavoro, per venire incontro alle mutevoli esigenze del mercato, ma soprattutto quella di rimodellare il welfare state per far fronte alle esigenze da essa stessa determinate. Sotto il primo aspetto, dobbiamo ricordare che la liberalizzazione del ricorso a forme di lavoro flessibile non è un fenomeno recente, essendosi ad essa fatto ricorso, seppure con gradualità e, all’inizio, con l’intervento legittimante della contrattazione collettiva, fin dagli anni ’80. Il processo ha poi rinvenuto delle significative accelerazioni a fine anni ’90 (penso alla l. n. 196 del 1997, che ha introdotto il lavoro temporaneo) e, soprattutto, con la riforma del lavoro del 2003 (d.lgs. n. 276/2003).

La flessibilità del mercato e dei rapporti di lavoro è, da ultimo, all’origine della l. n. 92 del 2012, della quale mi sembrano particolarmente interessanti le nuove regole, di segno restrittivo, introdotte per il lavoro autonomo economicamente dipendente, al fine di arginarne l’utilizzo fraudolento. Poco ha fatto tale legge circa la - indubbiamente necessaria - «razionalizzazione contrattuale» delle molteplici tipologie lavorative esistenti, essendosi limitata ad abrogare, dopo poco meno di un decennio dalla sua introduzione, il contratto di inserimento.
Credo comunque che alla riduzione delle tipologie contrattuali flessibili/precarie dovrebbe affiancarsi la garanzia, per i lavoratori con esse occupati, di più adeguati strumenti di sostegno economico ed anche formativo.

4. Cosa pensa della Riforma Fornero in ambito pensionistico? E’ consona al mercato del lavoro italiano flessibile e precario?

La riforma pensionistica del 2011 ha cercato di conferire al sistema previdenziale obbligatorio basi più sostenibili, in grado di far fronte alla crisi economica e finanziaria in atto e resistere ai cambiamenti demografici attesi. Sicuramente condivisibile è l’avere portato a compimento il processo riformatore avviato dalla l. n. 335/1995, accelerando - attraverso la sua generalizzazione per le anzianità contributive acquisite successivamente al 1 gennaio 2012 - l’entrata a regime di un sistema di calcolo, quello contributivo, troppo timidamente all’epoca introdotto.
La riforma ha operato, poi, una rimodulazione in senso restrittivo delle condizioni di accesso richieste per la maturazione del diritto ai trattamenti pensionistici (di vecchiaia e anticipata), che ha interessato i lavoratori rientranti sia nel sistema di calcolo misto, sia in quello contributivo puro (ovverosia coloro il cui primo accredito contributivo decorre dal 1 gennaio 1996) con un inasprimento di regole che si rivela, invero, particolarmente penalizzante per i lavoratori più giovani, che ricadono in toto nel sistema di calcolo contributivo e che risultano i soggetti maggiormente occupati in tipologie lavorative caratterizzate da discontinuità occupazionale.
Il problema non riguarda tanto l’inasprimento e l’armonizzazione «per genere» dell’età anagrafica di accesso alla pensione di vecchiaia, con previsione di coefficienti di trasformazione fino all’età dei 70 anni e adeguamento automatico delle età pensionabili alla crescita della speranza di vita, perchè il prolungamento dell’età pensionabile costituisce il principale strumento per favorire l’accumulo della contribuzione e, conseguentemente, per conseguire trattamenti pensionistici più adeguati, come da diversi anni chiede l’Unione europea.

Più problematica mi sembra, invece, la ridefinizione dei requisiti di accesso alla pensione di vecchiaia per i lavoratori neoassunti dopo il 1 gennaio 1996, dal momento che per essi, da una parte, si interviene sull’anzianità contributiva minima, elevandola da cinque a venti anni, dall’altra, si inasprisce anche il requisito economico di accesso alla pensione, introdotto dalla legge del 1995, richiedendosi che l’importo del trattamento risulti almeno pari ad almeno 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (ovvero c.a. 660 €).
Si tratta, come è evidente, di condizioni di accesso difficilmente raggiungibili da parte dei lavoratori più giovani (e più flessibili), se si considera che il sistema di calcolo contributivo è tutto imperniato sulla costruzione del montante contributivo individuale, riflesso della storia lavorativa del singolo. Anche per questo è molto importante rafforzare le misure di sostegno al reddito nei periodi di non lavoro con riconoscimento della contribuzione figurativa e conseguente effetto di arricchimento del montante contributivo che darà luogo alla determinazione del trattamento pensionistico.

5. Il lavoro è considerato all’unisono un’emergenza nazionale. Quali dovrebbero essere secondo lei i prossimi passi del nuovo governo?

Ho in parte già risposto a questa domanda. Ricollegandomi proprio alle considerazioni da ultimo svolte, credo sarebbe opportuna una semplificazione dell’assetto legislativo esistente, che vada verso la riduzione delle tipologie contrattuali e rimetta, piuttosto, all’autonomia negoziale un maggiore spazio regolativo in questa materia. Ma soprattutto, in un mercato del lavoro sempre più transizionale, è necessario ripensare le misure di sostegno al reddito nei periodi di non lavoro, attraverso strumenti che garantiscano l’effettiva universalizzazione delle tutele a favore non solo di chi ha perso una precedente occupazione, ma anche di coloro che, pur non avendo mai avuto accesso al sistema produttivo o essendone stati espulsi oramai da lungo tempo, mostrano concreta disponibilità ad entrarvi.
La riforma del lavoro del 2012 ha tentato - in coerenza al principio di flexicurity di matrice europea - di riequilibrare le regole del rapporto con le tutele apprestate nel mercato del lavoro, attraverso la graduale introduzione di un sistema protettivo egualitario, destinato - a regime - a superare l’assetto binario delle tutele contro la disoccupazione involontaria, prima vigente. Il nuovo sistema di sostegno al reddito è rimasto, però, ancora articolato secondo la tradizionale impostazione lavoristico-categoriale, che lascia scoperte ampie fasce di popolazione, primi tra tutti i lavoratori maggiormente discontinui, i lavoratori occupati con contratti di lavoro a tempo parziale verticale su base annua, ma anche molti lavoratori autonomi, i giovani inoccupati e i disoccupati di lungo periodo. Un’impostazione, questa, che non si mostra in linea con le soluzioni giuridiche adottate in molti ordinamenti europei, ove si registra la presenza di un secondo livello di prestazioni di disoccupazione a carattere assistenziale, nonché di misure di reddito minimo per le persone in difficoltà economica.

Credo, quindi, che il legislatore dovrebbe colmare questa grave lacuna del nostro sistema di welfare e adottare misure di sostegno destinate a fornire un reddito minimo al verificarsi dell’evento disoccupazionale. Questa strada potrebbe essere tecnicamente sostenuta se il rischio della disoccupazione involontaria fosse inteso quale evento connesso non a semplici scelte individuali, quanto piuttosto alle condizioni oggettive del mercato, in modo tale da ampliare gli schemi protettivi fino a ricomprendervi non solo il lavoratore in sé, ma anche il nuovo soggetto, che è ’colui che vuole lavorare’. E’ questa, del resto, la logica sottesa alla sperimentazione del reddito minimo garantito, avviata nel Lazio nel 2009, incentrata sulla valorizzazione della laboriosità, ovvero della mera messa a disposizione delle proprie energie lavorative e/o partecipative, quale fondamentale e prioritario criterio di accesso, non solo alle politiche attive del lavoro predisposte dai centri dell’impiego, ma anche per l’attribuzione di un diritto sociale ai soggetti maggiormente esposti al rischio di marginalità nel mercato del lavoro (disoccupati, inoccupati o lavoratori precariamente occupati, con un reddito di importo modesto). Proprio l’esperienza laziale, purtroppo troppo precocemente abbandonata, potrebbe costituire un valido modello di riferimento per sperimentazioni da adottare a livello nazionale.

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