Economia italiana dal 1987 al 1999: ecco cosa è accaduto

Roberto Nardella

11/03/2015

01/11/2018 - 16:45

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La lira si svaluta del -32,2% contro dollaro e del -29,8% contro marco tedesco, nel 1993 il PIL scende del 20% fino ad arrivare alla più colossale svendita di un patrimonio pubblico: 91 miliardi di euro in privatizzazioni. Ecco la cronaca del declino italiano.

Economia italiana dal 1987 al 1999: ecco cosa è accaduto

Prosegue l’approfondimento sulla storia dell’economia italiana: un’analisi commentata sulla base di dati economici, accompagnata dalla contestualizzazione degli avvenimenti storico-politici più importanti.

Tra il 1987 e il 1999 si compie il declino della crescita economica in Italia; il crollo del PIL e del valore della Lira contro marco tedesco e dollaro USA, fino ad arrivare alle privatizzazioni.

In questi tragici anni la crescita italiana perderà il 21% verso la Francia, il 29,3% contro la Germania, l’11,1% contro la Gran Bretagna, il 27,7% contro il Giappone e il 25,8% contro gli Stati Uniti.

Periodo D: dal 1987 al 1991

AnnoExportImportTotInflazionePIL$ vs £DM vs £
1987 146 142 4 4,74% 776 1170 740
1988 157 157 0 5,06% 859 1312 737
1989 173 173 0 6,26% 895 1274 750
1990 218 216 2 6,45% 1138 1135 755
1991 214 213 1 6,25% 1201 1147 758

1987: Ingresso dell’Italia nello SME credibile [-2.5% +2.5% di svalutaz/rivalutaz. massima]

Il PIL italiano passa da 617 a 1201 miliardi di dollari (+94,6%), la crescita annua è pari al +15.76%.

Il saldo della bilancia commerciale di periodo, una volta che il prezzo del greggio si è stabilizzato, torna in attivo di 7 miliardi.

La lira si rivaluta del +15,2% contro dollaro e si svaluta del -8,6% contro marco tedesco.

In tutto il periodo l’inflazione italiana fu pari al 28,76%, quella degli USA è del 22,12%, la francese del 15,94%, l’inglese del 27,87%, la giapponese del 9,41%, mentre quella tedesca del 11,04%.
Ancora una volta il distacco del duo deflazionistico Germania-Giappone e resto del G6 è abnorme.

Nello stesso periodo gli altri del G6 crescono così: la Francia del 64%; la Germania del 78,6%; la Gran Bretagna del 87%; il Giappone del 72,5%; gli USA del 34,5%.

La classifica PIL top G6 nel 1991 è la seguente:
- USA (6174 mld);
- Giappone (3537 mld);
- Germania (1809 mld);
- Francia (1245 mld);
Italia (1201 mld);
- Gran Bretagna (1066 mld).

Al 31/12/1991 l’Italia rafforza il quinto posto ed è ad un passo dal quarto detenuto dalla Francia di soli 44 miliardi di dollari USA.

Periodo E: dal 1992 al 1996

AnnoExportImportTotInflazionePIL$ vs £DM vs £
1992 232 233 -1 5,28% 1272 1472 913
1993 218 186 32 4,63% 1026 1714 987
1994 241 205 36 4,05% 1059 1620 1048
1995 291 248 43 5,23% 1132 1546 1108
1996 313 253 60 4,02% 1266 1516 984

1992: Processo “mani pulite”, l’Italia abbandona lo SME credibile nel giugno-luglio.
luglio 1992: uscita dallo SME e svalutazione lira
1993: Inizio delle privatizzazioni
1996: Road show euro con rivalutazione forzata lira.

Dal 31-12-91 al 31-12-95, in soli quattro anni, la Lira si svaluterà del -29,8% contro il marco tedesco; si arrivò a questa decisione non più rimandabile dopo una difesa scellerata ed oltranzista di una parità forzosa e in sostenibile per la nostra lira, dove vennero bruciati 91.000 miliardi di Lire per poi essere costretta a rivalutare nel corso dei mesi successivi per l’adesione definitiva all’euro del +11.5% sempre contro il marco tedesco.

Il PIL italiano passa da 1201 a 1266 miliardi di dollari (+5,4%), la crescita annua è pari al +0,9%.

Il saldo della bilancia commerciale in questi anni migliora drasticamente, grazie alla salutare svalutazione che andava a recuperare tutta l’inflazione accumulata rispetto alla Germania nel periodo dello SME credibile (1987-1992) pari ad un +19% ca.

La lira si svaluta del -32,2% contro dollaro e del -29,8% contro marco tedesco.

In tutto il periodo l’inflazione italiana fu pari al 23,21%, quella degli USA del 14,33%, la francese del 9.95%, l’inglese del 13,93%, la giapponese del 3,68%, mentre quella tedesca è del 15.40%.

Il Giappone si riconferma il massimo deflazionista ma vi suonerà parecchio strana un’inflazione così alta della Germania se comparata agli altri periodi presi in esame; ma forse dimenticate la riunificazione del 1990.

Per attrarre capitali esteri la Germania alzò di diversi punti percentuali i tassi d’interesse costringendo tutti gli altri Paesi dello SME a fare altrettanto (mettendo in difficoltà soprattutto l’Italia che già li aveva alti) e ai quasi 20 milioni di tedeschi dell’est a cui erano stati convertiti per decreto-legge i Marchi DDR in marchi “pesanti” (circa 3 volte di più il valore del DM) non videro l’ora di spendere quasi tutto nei “ricercati prodotti occidentali”.

In breve tempo, nell’arco di pochi mesi, l’inflazione prese a salire (nel triennio 91-93 quella tedesca salì complessivamente del +13.6%, mentre la media dei suoi partner d’eccellenza -Olanda, Austria e Belgio- solo del 9,4%), mentre l’industria della ex-DDR fu completamente distrutta e di converso l’industria tedesco-occidentale gongolava.

Pensate, il saldo di bilancia commerciale tedesca dal 1970 al 1992 compreso, era sempre stato passivo, accumulando la cifra record di -285 miliardi di dollari: ben 23 anni continui di importazioni maggiori delle esportazioni.

Il 1992 fu l’ultimo anno che ciò accadde (-8 mld): grazie alla enorme pressione che esercitò la nuovo massa di lavoratori ex-DDR a basso costo - ma con buona formazione lavorativa - messi in competizione con i ricchi compensi a cui erano abituati gli operai dell’ovest (curva di Phillips docet) si operarono tagli salariali, accompagnati dal non adeguamento degli stessi all’alta (per loro altissima) inflazione.

In pratica, con questa azione di compressione salariale, dal 1992 sino al 1996 inanellarono questo bel filotto:

-8+3+7+15+23= +40 miliardi di USD in surplus commerciale.

Dalla globalizzazione avviata nel 1979/80 e dal conseguente disfacimento della ex URSS in poi, grazie alle leggi della UE, sempre più improntate al buonismo e al “volemose bene”, la grande industria multinazionale ha ingannato tutti, riuscendo a mettere in competizione 2 mondi lavorativi completamente diversi e distruggendo al contempo tutte le economie più deboli che non hanno retto il trauma. Il tutto in pochissimi anni.

Nello stesso periodo gli altri del G6 crescono così: la Francia del 26,4%; la Germania del 34,7%; la Gran Bretagna del 16,5%; il Giappone del 33,1%; gli USA del 31,2%.

La classifica PIL top G6 nel 1996 è la seguente:
- USA 8100;
- Giappone 4706;
- Germania 2437;
- Francia 1573;
Italia 1266;
- UK 1242.

L’Italia, dal 1991 al 1996 è il fanalino di coda nella crescita: il 1993 fa segnare quasi un -20% di PIL che verrà recuperato per intero solo 11 anni più tardi.

In questi tragici 6 anni la crescita italiana perderà il 21% verso la Francia, il 29,3% contro la Germania, l’11,1% contro la Gran Bretagna, il 27,7% contro il Giappone e il 25,8% contro gli Stati Uniti.

Una cosa mai accaduta prima.

I soliti detrattori penseranno: “Ecco, è evidente! Grazie alla svalutazione l’Italia è arretrata pesantemente”.

Voglio ricordare che nel 1992, mentre in Germania accadeva ciò che ho appena descritto, l’Italia perse quasi completamente la classe politica del trentennio precedente che venne rimpiazzata nei posti strategici soprattutto da gente proveniente da noti istituzioni bancarie che seguirono – facendo addirittura meglio - alla lettera l’esempio thatcheriano.
La Gran Bretagna, guarda caso, proprio con le “riforme” che seguirono l’avvento del liberismo perse nel Periodo “C” (1981/1986) il 29% contro l’Italia, il 4,9% contro la Francia e il 5% contro la Germania.

La UK passò da un PIL di $542 mld del 1980 a $570 mld del 1986, perdendo il 6° posto proprio a discapito dell’Italia).

Quelle “riforme strutturali” dell’epoca portarono l’Italia a perdere posizioni che mai più avrebbe riguadagnato.

Qui tutte le “svendite di Stato”, le privatizzazioni con relativo valore al momento della cessione in miliardi di Lire dell’epoca:

1993 italgel, cirio-bertolli-de rica, SIV 2753
1994 comit, IMI, INA, sme, nuovo pignone, acciai speciali terni 12704
1995 ENI, italtel, ILVA laminati piani, enichem augusta 13462
1996 dalmine italimpianti, nuova tirrenia, mac, monte fibre 18000
1997 TELECOM ITALIA, BANCAROMA, seat, aeroporti di Roma 40000
1998 BNL + altre tranche 25000
1999 ENEL, AUTOSTRADE, medio credito centrale 47100
2000 dismissione IRI 19000

Il 1997, come vediamo, segna l’inizio dei veri e propri “saldi di Stato”.

La scusa fu quella di reperire capitali per il road-show dell’Euro. Il governo dell’epoca (Prodi dal 17/05/1996 al 20/10/98) iniziò a spingere sulle privatizzazioni e sulle cartolarizzazioni, ovvero la svendita sistematica del patrimonio di tutti gli italiani).

Lo stesso Prodi non fece in tempo poiché il governo cadde, e con una mossa a sorpresa, senza il ritorno alle urne, si fece in tutta fretta una nuova maggioranza con il presidente del consiglio l’ex “comunista” Massimo D’Alema, che proseguì la barbarie fin quando gli fu permesso (aprile del 2000) e conseguentemente proseguito dal governo “tecnico” Amato, quest’ultimo finito con la chiamata alle urne nel maggio del 2001.

Questa stagione si concluse con la più colossale svendita di un patrimonio pubblico: si incassarono 178.019 miliardi di lire pari a 91 miliardi di euro da parte di uno stato sovrano in tutta Europa, facemmo addirittura meglio della liberal-Inghilterra della Thatcher.

91 miliardi di euro per regalare l’immensa ricchezza di ogni italiano, cancellando negli anni a venire milioni di posti di lavoro che fecero perdere quella crescita, de-moltiplicandola ogni anno come mai accadde prima di allora.

E come ben sappiamo le privatizzazioni non sono mai cessate, anzi vanno avanti a piè sospinto.
Oggi la scusa è cambiata: il denaro realizzato sarà usato per abbattere il “debito pubblico”. L’esempio più pratico di come far passare il fatidico cammello attraverso la cruna dell’ago.
Adesso in molti si domanderanno a cosa sono realmente servite le privatizzazioni e, visto che alla fine sono state un fallimento, perché insistere.

Domanda più che pertinente direi.
Le privatizzazioni sono sempre state acquisizioni da parte di altri grossi e privati gruppi industriali multinazionali, ovvero amici che vendono il bene pubblico ad amici di amici.

Svendere il patrimonio industriale pubblico significa anche abbassare l’occupazione reale nell’arco di qualche anno: non ho mai sentito aziende “ristrutturate” che abbiano assunto più dipendenti della vecchia gestione.

Eliminare posti di lavoro pubblici, sicuri, ben retribuiti e quasi intoccabili serviva a creare l’instabilità lavorativa necessaria a farti accettare qualsiasi schifo di lavoro, anche se malsano, incerto e sottopagato.

Non meno di 3 milioni di posti di lavoro di quel tipo sono stati persi dal 1993 ad oggi, sostituiti da co.co.co, co.co.pro, cooperative fasulle, contratti a termine ecc.

Un mercato del lavoro con poca disoccupazione e ovviamente ben retribuito (ri-vedi curva di Phillips) mai avrebbe permesso le nefandezze a cui stiamo assistendo. L’immigrazione favorita e voluta dalla UE, accompagnata dal solito finto e perfido buonismo, serve sempre alla stessa finalità: alzare la disoccupazione marginale per far accettare ai lavoratori salari e diritti calanti.

L’Italia era un Paese-modello, nonostante la corruzione, la mafia e l’indolenza tipica dei mediterranei. E questo “non era cosa buona”: chissà mai che anche i morigerati tedeschi l’avessero capito cosa sarebbe accaduto?
Eravamo un esempio “sbagliato” da far fallire.

Sapete perché in Francia non sarà possibile applicare le “riforme strutturali”? Lo Stato francese dà lavoro al 50% dei suoi concittadini, mentre il 52% del PIL nazionale proviene direttamente dallo Stato stesso.
Applicare il job-act ai dipendenti statali non è così semplice, anche perché si perderebbe il 50% degli elettori (e il nostro primo ministro lo sa benissimo). Quando si arriverà a chiedere ciò alla Francia ci sarà il punto di rottura.

Chiedetevi il perché nazioni come la Norvegia, improntate ad un forte statalismo (direi all’italiana anni ’70) siano rimaste ben lontane dalla UE: l’Unione Europea è la quintessenza del “libero mercato”, una grossa costola del modello statunitense e come tale non ammette intromissioni dallo Stato.
Qualcuno la chiama “dittatura finanziaria”.

Periodo F: dal 1997 al 1999

AnnoExportImportTotInflazionePIL$ vs £DM vs £
1997 302 255 47 2,04% 1199 1760 983
1998 308 269 39 1,96% 1225 1662 989
1999 293 270 23 1.66% 1208 1927 990

- nel 1999 il cambio verso extra UE viene denominato in euro.

Il PIL italiano ha ancora due brutte cadute e passa dai 1266 miliardi del ’96 ai 1199 miliardi del ’97, poi recupera sino ai 1225 nel ’98 e scende ancora ai 1208 miliardi di dollari nel ’99: l’intero periodo segna una decrescita complessiva del -4,6%.

Il saldo della bilancia commerciale resta (per fortuna) ancora molto forte, facendo segnare +109 miliardi nel triennio.

Come abbiamo visto le svendite di Stato hanno la loro maggiore accelerazione proprio a partire dal 1997 ma nonostante ciò manteniamo “botta” con gli altri del G6: in questo triennio crescono solo le economie USA e UK, oramai votate quasi esclusivamente sul finanziario.

Questo è il periodo delle crisi asiatiche e del quasi default russo che investono in pieno le altre economie tradizionali che cominciano a risentire pesantemente della crescita del gigante cinese che proprio in quegli anni comincia a prosperare vertiginosamente: dal 1994 comincia ad inanellare surplus di bilancia commerciale ininterrotti sino a tutt’oggi e con ritmi di crescita a doppia cifre che le economie mature non vedono più da almeno un decennio.

Nello stesso periodo gli altri del G6 crescono così: la Francia del -7.44%; la Germania del -12,56%; la Gran Bretagna del 22.25%; il Giappone del -7,93%; gli USA del 19,34%.

In tutto il periodo l’inflazione italiana è pari al 5,66%, quella degli USA è del 6,08%, la francese del 2,37%, l’inglese del 4,71%, la giapponese del 2,76%, mentre quella tedesca è del 3,44%.

Ancora una volta l’inflazione italiana è notevolmente più alta di quella tedesca e ancor di più di quella francese: questi squilibri non più riaggiustabili con una politica monetaria mirata peseranno come macigni sulla crescita futura.

La classifica PIL top G6 nel 1999 è la seguente:
- USA 9666 mld;
- Giappone 4433 mld;
- Germania 2131 mld;
- UK 1518 mld;
- Francia 1456 mld;
Italia 1208 mld.

Questa è l’ultima classifica del G6 dove appare l’Italia: dal 2001 in poi altri saranno i protagonisti e al nostro amato Paese toccherà un ruolo di marginalità politico-economica sempre maggiore.

Per scaricare l’inflazione e recuperare la competitività sui mercati non si può più utilizzare la leva monetaria e si deve operare sulla deflazione interna, mentre allo stesso tempo realtà emergenti come la Corea del sud che da tempo ha preso a modello, guarda caso, proprio l’Italia degli anni ’70, lo fa senza problemi, superando la tempesta del 1997 (-32% di PIL nel 1998) e riprendendo una stabile e robusta crescita già dal 1999.
Ma questa è un’altra storia.

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