Italia, è il fuori tutto: 35% della rete elettrica e del gas alla Cina per 2 miliardi

Erasmo Venosi

25 Luglio 2014 - 15:23

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L’Italia vende il 35% di «CDP Reti» ai cinesi. Ventimila chilometri di rete di trasmissione elettrica e un terzo della rete del gas passa in mano ai cinesi. L’esigenza di fare cassa rischia di far commettere errori esattamente come negli anni ’90.

Italia, è il fuori tutto: 35% della rete elettrica e del gas alla Cina per 2 miliardi

Un annuncio gridato. S’incassano due miliardi vendendo il 35% di “Cassa Depositi e Prestiti Reti” a “State Grid of China” una società statale, che gestisce le reti e la distribuzione di energia elettrica in Cina. Un terzo della rete elettrica italiana lunga 61 mila chilometri con 380 stazioni ad alta tensione gestite da Terna Spa e un terzo della rete del gas gestito da Snam passa ai cinesi. L’altro 14%, per arrivare al 49% fissato come quota da alienare? Quasi certo il Fondo di Investimento australiano “Industry Fund Management”. Un investimento ottimo per i cinesi e gli australiani se solo si pensa che il tasso di remunerazione del capitale investito e riconosciuto WACC (Weighted Average Cost of Capital) è pari al 6,9% nella rete di trasmissione e 7% in quella di rete di distribuzione.

Ulteriori maggiorazioni sono riconosciute per nuovi investimenti. Una maggiorazione del 2% del WACC, per investimenti nella rete e addirittura del 9,9%, per investimenti di sviluppo della rete finalizzati alla riduzione delle congestioni. I rigorosissimi tedeschi remunerano al 5% gli investimenti in rete elettrica e ora stanno procedendo con il consenso unanime dei partiti verso un unico operatore di rete con capitale interamente pubblico. Addirittura a Berlino è stata lanciata l’iniziativa, che siano i cittadini ad riacquistare i chilometri di rete di connessione urbana di proprietà della società svedese Vattenfal. Ora secondo l’Ocse, negli ultimi sei anni il flusso totale d’investimenti italiani all’estero è stato di 300 miliardi di dollari, pari a 50 miliardi per anno. Per contro, il flusso d’investimenti diretti esteri in Italia è stato di appena 126 miliardi, pari cioè a 21 miliardi per anno. Per ogni euro che dall’estero è investito da noi, l’Italia ne investe fuori poco meno di tre. Certamente i capitali vanno, dove i rendimenti sono più elevati. I capitali stranieri hanno investito poco in Italia e quelli italiani hanno cercato opportunità all’estero.

Nessuna fantasia di Governo per approfondire e mettere a punto qualche strumento legislativo? Convertire facilitando fiscalmente, per esempio quote di Btp detenute da banche, assicurazione, intermediari finanziari e multiutility in quote di capitale sociale di “CDP Reti” risparmiandoci cinesi e australiani?
Alla fine il Governo ha ritenuto migliore la scelta di incassare subito i 2 mld di euro invece che valutare il modo di captare almeno un decimo degli investimenti annui degli italiani all’estero (10 mld), che sono pur sempre cinque volte l’investimento oggi esaltato dei cinesi, in asset strategici come le reti di trasmissione elettrica e quella del gas!

Con queste scelte finalizzate a fare cassa subito per non deludere Bruxelles e il raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio nel 2015, di strada probabilmente ne faremo sempre poca come dimostrano le sistematiche smentite sulla crescita.
Sarà un miracolo se quest’anno non avremo valori negativi altro che lo 0,8% scritto nel DEF e con faccia tosta ripetuto ieri sera al TG!

L’obiettivo primario, resta quello di ricreare la condizioni, di una crescita di lungo termine ripristinando progressivamente un tasso d’investimento netto interno del 4% (60 mld) su base annua attraverso la “cattura“ con adeguate politiche di remunerazione dei capitali esteri e nazionali convincendo i primi a restare in Italia e i secondi a scegliere il nostro Paese. Tutto questo vuol dire ridefinire la politica economica.

Il crollo degli investimenti nell’ultimo decennio ha motivazioni fiscali, di vincoli UE, ma anche di complicazioni burocratiche; ci collochiamo al 90^ posto nel 2014 per l’apertura di una nuova attività d’impresa. Un Paese che nel 2014 è scivolato al 9^ posto dopo la Russia e con una produzione industriale ridottasi di un terzo rispetto all’inizio della crisi. Un Paese fuoriuscito nel 2013 dalle prime otto grandi economie del mondo e dove la quota dei profitti lordi sul Pil è passata in 10 anni dal 32 % al 26%. Elevato cuneo fiscale, diminuzione della quota dei profitti sul Pil, cassa integrazione guadagni per 515 mila lavoratori, 3 milioni di persone con contratti a tempo determinato o a progetto o part time. Un disastro che si è verificato pur presentando l’Italia il più alto avanzo primario statale cumulato della storia (1996/2013). Con 591 md superiamo i tedeschi di 220 mld! Il peso del nostro debito pubblico rispetto al totale del debito pubblico dei paesi che hanno l’euro è sceso notevolmente in 20 anni, dal 28,7% del 1995 al 22,1% del 2013. Infine l’indicatore vero di sostenibilità ovvero il debito aggregato cioè di Stato, imprese e famiglie è pari al 261% del PIL contro il Giappone (412% del Pil), la Spagna (305%), il Regno Unito (284%) e anche Stati Uniti (264%).

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